Famiglia Petri - Claudio Burelli la Poesia in Genova

Claudio Burelli
La Poesia
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Famiglia Petri

- I MIEI LUOGHI

  
La prima cosa che videro quando in un giorno imprecisato dei primi anni del 1700 sbarcarono dalla piccola barca a remi provenienti dalla dirimpettaia terra Corsa, furono molte pietre, di ogni dimensione, alcune di esse, affioranti a pelo d’acqua, resero problematico lo sbarco sulla piccola spiaggia di Colle Palombaia.

    Erano due giovani fratelli, si chiamavano Giovanni e Francesco cercavano un’altra vita, un’altra terra e per prima cosa avevano la necessità di inventarsi un nuovo nome al posto di quello originario scomodo da portarsi addosso; la prima cosa che venne in mente loro furono quelle pietre che li accolsero al loro arrivo, per cui, in loro onore   decisero di chiamarsi Petra, trasformatosi poi in Petri con il passare degli anni.

  Ciò scritto in base a racconti di mio Nonno Mario Petri il quale amava sempre ricordare l’origine della sua razza in questo modo che, peraltro, coincide in tutto con il pregiato albero genealogico ricco di   interessanti dettagli redatto
a cura del Prof. Pierluigi Petri, illustre parente.    

    Tornando alla storia dei due fratelli, mentre Francesco rimase celibe, Giovanni convolò a giuste nozze con certa Mattea Palmieri fu Bartolommeo, dalla quale ebbe due figli battezzati ambedue nella Parrocchia di San Piero                       Nonno Mario                                          in Campo i quali a loro volta diedero il via ad una dinastia che continua fino ai giorni nostri con ramificazioni sane e dignitose che hanno dato lustro al casato nel corso dei secoli.


    Non entrando, per meri motivi di correttezza, in merito ad altri rami della famiglia, la mia storia comincia con mio nonno Mario classe 1901, nativo del Paese di San Piero, un piccolo borgo antico di origini etrusche, sorto per ovvie ragioni di sicurezza, sulla cima di una collina sovrastante il golfo di Campo.

   Nonno Mario era l’ultimo di una nidiata di figli nati da Giovanni e da Maria Galli, i cui nomi erano Martino, Ida, Livia, Cesira e Marianna, tutti dediti alla lavorazione della terra come in uso in quel tempo.
Nonno era una persona a suo modo istruito e colto, avendo avuto la fortuna di andare a scuola fino alla sesta classe, così amava ricordare, per quei tempi, visto che parliamo dei primi del 900, non era cosa da poco, anzi, pensando che la stragrande maggioranza della popolazione era totalmente analfabeta.

    Allo scoppio della Grande Guerra, suo fratello Martino, il primogenito, partì, come tanti, per il fronte, gli diedero un fucile e le stellette sulla giacca e lo mandarono sul Monte Zovetto a sparare ad altri contadini austriaci che come lui, ignoravano perfino il perché’ della loro presenza in quel posto.

Il 18 Giugno del 1916 cadde nel corso dell’ennesima battaglia sul monte di cui al precedente paragrafo, e di lui resta solo una fredda lapide appesa al muro del cimitero di San Piero, lasciando la famiglia nel dolore e nel rimpianto di una morte ingiusta quanto inutile.

    Mario fu fortunato perché solo per due anni si evitò un viaggio gratis con vista sulle Dolomiti, ed ebbe l’opportunità di vivere una vita giusta e lunga, piena di lavoro, sebbene intrisa di lutti e difficolta di ogni tipo.
All’inizio degli anni 20, Nonno Mario sposò una delle più belle ragazze del paese, Maria Tesei, di ottima famiglia ben inserita nel tessuto sociale del paese di San Piero.
Madre natura, nella sua bontà, aveva regalato a quella fanciulla due occhi color del cielo, due lanterne,  talmente celesti e chiare che, in mezzo alla fluente chioma corvina, risaltavano come pietre preziose, magari avessi ereditato da lei quella meraviglia.

     Ricordo benissimo i suoi genitori, Stefano e Giuseppa, entrambi classe 1873, due arzilli vecchietti quando io ero solo un bimbo, vissero in famiglia accuditi da mia nonna fino all’età di 90 anni,  fino all’ultimo dei loro giorni, senza aver mai patito mali di particolare interesse.
Dal matrimonio di Mario e Maria nacque mia madre Piera, la primogenita classe 1925, poi in sequenza Giovanna, Stefano detto Fanuccio con la sua gemella Giuseppina che visse pochi anni, Grazia e Silvano il più piccolo, purtroppo si spense di leucemia fulminante alla tenera età di 12 anni, era il 1952, io non avevo ancora un anno di vita, ricordo che mia nonna indossato l’abito  nero del lutto, non lo tolse mai più per il resto della sua vita.

    Mia madre essendo la più grande faceva da chioccia per i fratelli visto che mia nonna spesso era impegnata anche nei lavori dei campi in ausilio  di nonno.
La famiglia  abitava nel Pian di Mezzo, coltivavano un podere di proprietà, con piccoli appezzamenti sparsi nel territorio campese, che dava loro da vivere dignitosamente in cambio di una vita dura regolata dal sorgere e dal tramonto del sole,  sempre nelle vigne e nell’orto con il solo svago della messa alla domenica, indossando il vestito “bono”;  tempi duri, ma era così per tutti e c’era gente che stava anche peggio, almeno loro erano padroni della loro terra e nessuno poteva mandarli via.

  
 Il tempo gira la sua ruota ed arriva anche il 1940, ed anche in questo caso, ecco che  la buona stella di mio nonno brillò intensamente  nel suo universo, infatti,  quando la maggioranza degli uomini validi dovettero  partire per il fronte a causa dei capricci di pochi che si erano messi in testa di dominare il mondo, lui  fortunato, anche in questo caso, si fa per dire, naturalmente, se di fortuna si può  parlare,  perché avendo perso il fratello nella guerra precedente e risultante al momento l’unico sostentamento di una numerosa famiglia, lo esonerarono da quella autentica carneficina, graziandolo ben più di quanto lui stesso potesse pensare.
   
    Le sorti della guerra però pesarono non poco anche in quella piccola porzione di mondo antico, isolato dal resto del continente che era l’Elba in quel tempo.
Il 17 giugno del 1944, all'alba, trovò compimento l'operazione Brassard da parte delle forze alleate che, vinto la resistenza delle truppe tedesche di stazza sull’isola, sbarcarono non senza spargimento di sangue, sulla spiaggia, peraltro minata di Campo.
 

    Furono giorni di violenza, perché anche se si trattava di liberazione non bisogna scordare che era pur sempre un atto di guerra, e nella guerra come si sa, ci rimette sempre la popolazione indifesa, inerme e pacifica.
Non farò commenti di natura politica perché non è mia intenzione scendere in quei particolari, mi limiterò a parlare degli accadimenti che hanno visto protagonista la mia famiglia.

   
Continuando nel mio racconto e spiegando che i miei nonni scapparono dal piano  dove si trovavano, per nascondersi a San Piero, visto che avevano le figlie in una età che potevano destare interessi di cattivo tipo da parte delle truppe coloniali di occupazione;  va detto che  alla luce dei fatti, leggendo le cronache dei tempi, la sua fu una mossa del tutto condivisibile e  piena di buon senso, rivelatasi poi la sola cosa giusta da fare per evitare violenze od episodi analoghi che  avrebbero condizionato anche la vita futura delle giovani.

    Passata la bufera senza molte traversie la vita continuò scandita dalla quotidianità di una volta, mia madre si sposò con mio padre nel 1949 e lascio la casa dei Petri per traferirsi a Volterra dove iniziò un’altra vita dandomi alla luce, come già detto nello spazio del sito dedicato alla famiglia Burelli.

   L’Elba negli anni che vennero cambiò volto e il benessere arrivò per tutti i suoi abitanti compresi anche i miei nonni, che tuttavia, contrariamente a molti altri continuarono nella loro attività di coltivatori diretti, ospitando, va detto, nei mesi estivi anche turisti amanti della natura e della pace agreste che non mancava certo nella loro casa.  

    
I Petri, Mario e Maria,  vissero ancora per molti anni fino al 1991, Nonno se ne andò in un giorno freddo di Gennaio nel modo che aveva sempre  sognato, con la zappa in mano, nella sua terra sotto casa, non conobbe mai ospedale, ve l’avevo  detto che aveva una stella buona che brillava in cielo per lui;  Nonna invece si sentì male a Genova in casa di suo figlio Stefano, colpita da un ictus cerebrale, questa fu la diagnosi infausta, era il 25 di Aprile, lottò come una leonessa per molti giorni, si arrese al male che era già Maggio in corso, il mese delle sue rose che l’aspettarono invano.

La loro casa ed il resto, frutto di una vita intera di sacrificio e lavoro, venne divisa in parti uguali fra gli eredi e la parte a piano terra dell’abitazione, con annessa una parte di terreno, toccò a mia madre che la sottopose a lavori di restauro rendendola confortevole ed accogliente.

    Ora è toccato il mio turno, ma amo dire di averla solo in prestito, in realtà appartiene ai miei figli, io ho solo il compito di migliorarla sempre, così come hanno fatto coloro che mi hanno preceduto e che mi stanno osservando dall’alto dei cieli spero compiaciuti del mio comportamento.    

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